Storia
Roberto Visconti
Architetto e pittore, nato nel 1930, ha lavorato a Salerno a partire dagli anni ’60, realizzando numerose opere urbanistiche ed edilizie. E’ stato Senatore della Repubblica nella IX e X Legislatura (1983-1992). Ha progettato la sede di Diagnostica Cavallo, curandone anche alcuni interventi artistici, come il pannello in ceramica che si trova alle spalle dei banchi di accettazione, ispirato alla Pikaia, che è uno dei primi vertebrati di cui siano state trovate tracce.
Cordiale e franco nei rapporti di amicizia, Armando custodiva, però, gelosamente i sentimenti più intimi.
Lo faceva per un senso di pudore che non voleva perdere, convinto che solo “quando l’anima di ciascuno s’è fatta coestensiva al mondo a tutti comune”, allora soltanto, “non c’è nulla di veramente intimo e interiore da custodire”.
Il suo eloquio era agile ed elegante; alla ricerca del vocabolo giusto perché fosse sempre chiaro il suo pensiero; il suo attivismo ti portava a credere che la sua idea-guida fosse il fare.Frequentandolo ti accorgevi che la sua idea-guida era, invece, l’agire, secondo, però, un’etica del lavoro quasi calvinista. Rigoroso in laboratorio, premuroso verso i pazienti, il suo tempo era quasi tutto assorbito dall’attività professionale.
Pochi spazi al riposo; il resto, per coltivare i tanti interessi che aveva in campo culturale e politico.
Interesse per i diversi linguaggi figurativi, a cominciare da quelli degli artisti della sua terra.Collezionava sculture, quadri e pezzi di ceramica facendosi guidare soltanto dal “gusto” e dall’affetto per l’artista.
Per lui il pezzo d’arte, capace di trasformare il transitorio in duraturo, cioè di fermare nel “cerchio eterno dell’apparire” l’immagine di ciò che della natura o della memoria in esso è rappresentato, doveva continuare ad avere soltanto un valore d’uso.Preferiva il figurativismo all’astrattismo perchè percepiva quest’ultimo come campo sperimentale ove finisce per affievolirsi fino a scomparire del tutto la pretesa di rappresentare qualcosa. Quel qualcosa da cui partire per entrare nel mondo delle emozioni e “vedere”. “Vedere” la “cosa” fermata nel tempo o la solitudine dell’autore, come ti può accadere davanti alla natura morta, al ritratto di suo figlio bambino o alla casa della periferia che non c’è più, di Mario Carotenuto, o davanti alla donna disegnata con tratto sicuro da Greco o all’assolato prato fiorito di Gatto.
“Vedere” la “commedia umana”, come la recitano i personaggi che affollano le tavole disegnate con magistrale ironia da Petti. “Vedere” come il tempo è sospeso nelle raggelate atmosfere degli interni iperrealistici di Quarta.
“Vedere”, nelle tele di Lista, come, con la sottrazione soprattutto del colore, si può ridurre la “cosa” alla sua essenza.
“Vedere”, con Durante, come il legame tra mondo oggettivo e processo creativo può essere rotto, e ti puoi smarrire.
“Vedere” che in un mondo dominato dalla tecnica si può ancora “fare” arte in modo “artigianale” come sa fare Giancappetti, con le sue “riggiole”, coperte di “colore della memoria” o come Marano quando con i suoi ferri e le sue ceramiche va alla ricerca dei “segni” interpretativi del rapporto uomo-natura.Amava il linguaggio icastico dell’arte. Volle che anche nel luogo del lavoro fosse presente la metafora.
Gli preparai un pannello di ceramica nel quale, seguendo i principi del neo-evoluzionismo in cui Armando credeva, ho trascritto i simboli del motore e del supporto dell’evoluzione della specie umana: la selezione naturale e l’ereditarietà. E, a fianco, volle il pannello di Mariagrazia Cappetti con lo strumento a lui più caro: il microscopio.Armando era affascinato dal linguaggio della poesia e del teatro ed amava moltissimo la musica.
La riteneva l’espressione più alta della mente umana. Conosceva, soprattutto, la musica classica. Era informato su orchestre, esecutori e direttori ed era interessato perfino agli strumenti tanto da acquistarne uno: il violino. Ha seguito molte “stagioni musicali”. Certamente quelle de “La Fenice” di Venezia, del “Festival dei Due Mondi” di Spoleto, del “S. Carlo” di Napoli, del “Verdi” di Salerno.Amava il cinema. L’interesse cominciò a crescere negli anni ‘50 con la frequentazione del “Circolo del cinema” e con la lettura della rivista “Filmcritica” di Bruno. La passione gli è durata tutta la vita e non ha mai trascurato di documentarsi, assiduamente, sui filoni espressivi che quell’arte andava sperimentando.
Ha partecipato ai fermenti politico-culturali che nel dopoguerra si sono avuti nella nostra città e che ebbero come centri d’incontro e di discussione, anche politica, la libreria Macchiaroli, con il giornale parlato del giovedì, il “Lettore”, ed il “Circolo democratico” con le sue attività , spesso di risonanza nazionale. Armando vi partecipava con la sua particolare sensibilità politica.Coscienza laica, ha costruito la sua vita fondamentalmente sul principio dell’onestà intellettuale, in cerca della verità in sé stessa, rifiutando ogni catechismo, convinto che solo chi ascolta la propria coscienza è veramente libero.
Le coordinate del suo orientamento politico vanno ricercate in quell’area politico-culturale dominata in quegli anni dalla figura di Ugo La Malfa e dagli amici del “Mondo” di Pannunzio.
Critico verso ogni ideologia, sia dei vecchi socialismi e liberalismi che del comunismo. Non avversario dei comunisti italiani, ma, con Bobbio, “né con Marx, né contro Marx”. Ha creduto e si è battuto per una società libera, per una giustizia uguale per tutti, per i diritti fondamentali e, di recente, per quelli che attengono a valori più eticamente sensibili quali l’eutanasia ed il testamento biologico.Gli si attaglia bene la definizione che di sé dette Popper: “un empirista ed un razionalista di tipo particolare, ma anche un liberale, nel senso inglese del termine”. Difendeva con vivacità le sue convinzioni e rispettava le tue. Ma all’eccessivo ottimismo e alle solide certezze di una tesi rispondeva con un sorriso carico di ironia.
Conosceva il sorriso, ma anche la rabbia. La rabbia che prende chi ancora crede che si può cambiare il mondo. Non si arrabbiava per invidia, perché essa attiene al possesso, ed Armando era disinteressato; non per vendetta, perché Armando non conservava risentimenti; forse, per fatti attinenti ai rapporti affettivi; certamente quando si toccava un diritto inviolabile o la sua sfera privata.Ci siamo incontrati la prima volta, a scuola, nel marzo del 1944. Quando a Salerno da poco si era insediato il primo Governo dell’Italia liberata e le ferite della guerra si ricoprivano del lapillo dell’ultima eruzione del Vesuvio.
Fu scontro. Avevo ragione, lui lo riconobbe e divenimmo amici.Ci vedevamo spesso; sempre, in occasione degli appuntamenti politici o culturali più significativi.
Negli ultimi anni ci siamo frequentati molto, ma negli ultimi mesi non voleva vedermi.
Malato grave, voleva affrontare la morte con la stessa dignità con la quale aveva affrontato la vita.Ci siamo rivisti pochi giorni prima di morire. Nel tempo della sua agonia, della sua lotta, tra il volere la morte che giunge quando vuole il destino e la morte che dovrebbe poter giungere quando vogliamo noi.
“Con la mano mi salutasti, per entrare nel buio”. Ma in quell’attimo solo i pochi viventi si sono riconosciuti per dirsi addio, non arrivederci”. Armando ha scelto “la forma più radicale di ciò che per i mortali è l’annientamento della morte”. La fiamma ha incenerito la legna. Però, “la cenere non è la sorte toccata alla legna; essa non grida, ma tace la sorte della legna. Nel cerchio dell’apparire, la legna non diventa cenere, così come gli uomini non diventano polvere: la cenere è il successore della legna, la polvere dell’uomo. Ma l’annientamento di ciò che muore non appare”.
Allora, quale significato dare a quel saluto, destinato a permanere nel ricordo?
Girolamo Bottiglieri
Violinista, nato a Salerno nel 1974, allievo di Salvatore Accardo, primo premio di Virtuosismo nel 1997 al Conservatorio di Ginevra, dove vive e lavora. Componente del quartetto svizzero Quatuor Terpsycordes, opera anche come Primo Violino nell’Orchestra Sinfonica di Ginevra. Suona, tra gli altri strumenti, Ianuario, il violino che appartenne ad Armando Cavallo, ultimo violino prodotto dai liutai salernitani Annarumma.
Per Girolamo Bottiglieri:
“Ho molto desiderio di scriverLe, dopo il concerto di ieri sera, ma so che non ho gli «strumenti» più idonei a farlo, e sono solo sorretto dalla emozione e dal coinvolgimento totale a tale evento.
Purtuttavia due righe, anche se dette male, mi permetteranno almeno di esplicare o meglio di tentare di esternare, per un senso anche di partecipazione ad un giovane musicista così ricco e sensibile, tale emozione.
Ho vissuto tutto il concerto con adesione totale, tanto che alla fine ho dovuto correre a «chiudermi» in casa, per rivivere e non disperdere tanti valori. Gliene sono molto grato!”
Armando Cavallo, Salerno 28 giugno 1997
“Caro Armando,
nel rispondere oggi a queste righe scritte dopo un concerto di tanto tempo fa, non sapevo ancora se, memore dell’imbarazzo che la mia ingenua richiesta aveva provocato, usare il “lei”, o se, affermando una mia naturale ricerca di confidenza anche lessicale, osare parlare come ad un amico intimo, ahimè ora lontano, con il quale la deferenza, il rispetto e la stima umani e professionali reciproci sono messi da parte, a favore di uno scambio più informale. Mi perdonerai, spero, se ora preferisco darti del “tu”.
Credo di averti risposto e ringraziato solo troppo formalmente, quando lessi quel biglietto che conservo ancora oggi come uno dei ricordi più cari della mia vita musicale; cerco di “riparare” ora, più di dieci anni dopo, e di parlarti come avrei voluto.
Io rimpiango, in realtà , di non averti conosciuto meglio, ma serbo un ricordo nitido della tua persona: il tuo carattere schivo e riservato, la cortesia dei tuoi modi, la compostezza dei gesti, la misura, la pacatezza delle parole, un rispetto profondo, un amore immenso e commovente per l’arte, la venerazione che nutrivi per la musica e i musicisti, un’umanità empatica, discreta eppure intensa allo stesso tempo, un pudore e una delicatezza… toccanti: questi i tratti della tua personalità che mi hanno sempre ispirato e colpito.
Avrei voluto dirti che lo stesso affetto che tu mi dimostravi, pur in un ambito di formalità dei rapporti, l’ho nutrito per te; la tua presenza costante, con la tua amata consorte, ai miei concerti, e lo scambio di impressioni, accompagnato dagli immancabili ringraziamenti che mi rivolgevate per il “dono” che, in quanto musicista, vi avevo offerto (io stesso, in seguito, ho mutuato questo modo di rivolgermi ai miei colleghi, quando ascolto un concerto) erano motivo per me di conforto, e al tempo stesso spunto di riflessione sul cammino che andavo svolgendo.
E’ con un sentimento misto di gioia, commozione, orgoglio, che ricevo il tuo Ianuario – 118, 1968, ultimo esemplare della produzione di Vincenzo Annarumma, cui cercherò di dar voce e anima, in ricordo della nostra amicizia.
Con affetto, Girolamo“.
Girolamo Bottiglieri, maggio 2008
Giovanni Cappetti
Giovanni Cappetti, detto Giancappetti, è un Maestro Ceramista salernitano. Armando Cavallo, di cui è stato amico per tutta la vita, lo chiamava “Giannino”, ed oltre ad aver divorato assieme a lui, in gioventù, cesti interi di ciliegie, gli ha affidato la realizzazione di numerose opere che decorano le sedi della Diagnostica Cavallo.
Sessantotto anni di fraterna amicizia lasciano il segno. Riaffiorano i ricordi.
I banchi della scuola media inferiore con i primi amici Aldo Fulgione, Enzo De Ciancio, Alfonso Dell’Aglio, le partite di pallone, le ciliegie di San Mango, la frazione del pane e del formaggio.Dopo lo sbarco, l’apertura degli orizzonti.
Il film “Fantasia”, Memo Benassi con “Gli spettri” all’Augusteo, il festival del cinema a passo ridotto di Ignazio Rossi, le due mostre della ricostruzione, la rassegna di arte moderna a Cava, le prime collettive alla Casa del Combattente con la presenza di Mario Carotenuto, Nazareno Cugurra, Pappalardo Tamburrino; la mostra di Ciardo; la mostra di Omiccioli…E poi l’università, l’arte, la scienza, la cultura, il mecenatismo, la libreria Carrano, la libreria Macchiaroli, la galleria di Lelio Schiavone. I concerti alla Scarlatti e al San Carlo di Napoli. I concerti a Ravello e nell’atrio del duomo a Salerno.
La grande presenza di Pina “PINUS PINEA”. Di Pierpaolo. Dei nipotini.
Il laboratorio di corso Garibaldi “luminoso e colorato per non accentuare il disagio di chi aspetta con ansia il risultato delle analisi”.
Il nuovo laboratorio alle soglie del cinquantesimo anno di attività.
“Voglio dei pannelli di tua figlia che è diventata più brava di te”.
Salerno che si arricchisce. Salerno che si impoverisce.
Virginio Quarta
Virginio Quarta, artista nato a Taranto ma salernitano di adozione, ha dedicato al suo luogo dell’anima: la Costiera Amalfitana.
Conobbi il Dottor Armando Cavallo agli inizi degli anni ‘80; fece da tramite Antonio Pecora, co-titolare de “La Bottegaccia”, preziosa Galleria d’Arte fondata, agli albori dei ‘70, assieme al compianto Enzo Castaldi. Naturalmente ne apprezzavo già da tempo la fama di appassionato e colto collezionista d’Arte. Anch’egli, d’altronde, attento conoscitore e studioso della vita e dei fermenti culturali della città in quegli anni, aveva seguito, con l’attenzione e la curiosità che lo distinguevano, il mio percorso artistico, dalle mostre di Milano, Roma, Ravenna, ecc., fino alle esposizioni salernitane a “Il Catalogo”, alla “Taide” e, per l’appunto, a “La Bottegaccia”.
Frequentazioni sociali e tempi diversi, non collimando, avevano impedito una nostra conoscenza diretta, per cui il primo incontro, da entrambi auspicato, dovette essere forzato da un appuntamento voluto e organizzato da Antonio Pecora. Ci vedemmo presso il suo studio, alla fine di una delle sue faticose giornate di lavoro.
Lavoro che amava e al quale concedeva pause solo per la pittura o per la musica, altra sua grande passione. Gli anni e i reciproci impegni e vicissitudini, non hanno scalfito la preziosità dell’incontro, né diluito il ricordo grato di esso.
Nessuna concessione a preamboli di maniera e convenevoli, e però grande signorilità nell’immediatezza di un rapporto che nasceva in quel momento, ma che il tempo della conoscenza a distanza aveva già maturato sul terreno dell’appartenenza culturale.
Spontaneamente affabile, di maniere naturalmente cortesi, cordiale, gentile, conferì al nostro incontro una serenità non messa in conto e perciò assai apprezzata. Parlammo subito di pittura e di pittori, con la naturalezza di chi si conosce da molto.
Nel frattempo il mio sguardo non riusciva a impedirsi di volteggiare sulle pareti stracolme di dipinti.Lesse la mia voglia di goderne più attentamente, mi esortò con garbo a visitare la collezione insieme a lui, dolendosi della parzialità della stessa, perchਠmolte altre opere erano disseminate tra l’abitazione di Corso Vittorio Emanuele e la villa di Giovi. Girammo per le altre stanze ed ogni volta era un susseguirsi di emozioni. Mi rapì soprattutto l’amore che infondeva nel commentare i singoli “pezzi”, uno per uno, come creature: tasselli di un percorso e perciò testimoni, ciascuno, di un frammento di vita. Parallelamente mi colpì la competenza e la proprietà della terminologia nella collocazione cronologica e critica di ciascun periodo storico. II particolare che lo poneva sopra l’accezione del collezionista, era la spiccata, convinta sensibilità per le espressioni artistiche e culturali della città e della provincia. Convenimmo, a conclusione della serata, che in quel consesso di pittori, mancava la mia partecipazione. Quasi se ne scusò, incolpando della lacuna la complessità e onerosità del suo lavoro. Volle subito farsi “perdonare” commissionandomi alcuni quadri. Non scegliendoli tra quelli già presenti nel mio studio: le opere della sua collezione dovevano esercitare il fascino dell’unicità , fuori dalla “routine” della produzione, pensati solo per lui!
Al primo impulso si fece strada l’idea di un “ritratto”: l’uomo e la qualità del collezionista mi avevano coinvolto profondamente; tuttavia capivo che nella sua privatezza di persona schiva, mai avrebbe accettato l’implicita, inevitabile esaltazione dell’apparire, né, di conseguenza, si sarebbe mai prestato alla liturgia noiosa della posa in studio.
Non glie ne parlai, ma in cuor mio desideravo dar seguito a quel primo impulso.
L’uomo doveva emergere, con le sue peculiarità essenziali, senza apparire, desumersi attraverso il coacervo degli interessi e delle passioni. In tre settimane, lavorando spesso fino a notte fonda, dipinsi una tela di grandi dimensioni.
Collocai il quadro su due cavalletti coprendolo con un panno e lo chiamai.
Si meravigliò alquanto per l’esiguo lasso di tempo trascorso dall’incontro, ma la sera stessa era già nel mio studio, ansioso e curioso. Si diresse, come fosse già pratico dell’ambiente, al cospetto di quella forma nascosta, tirò giù egli stesso, dopo un’occhiata di complicità , il telo e si pose a gambe divaricate e braccia ai fianchi, quasi in posa di sfida, di fronte al quadro. Solo qualche attimo. Lo sguardo percorse più volte la superficie dipinta, roteando da un capo all’altro.
Si girò verso di me con un movimento repentino, abbandonò quella pausa di stallo emozionale e mi abbracciò.
Forse mormorò anche qualche parola, ma quel gesto così spontaneo, e gratificante, inaspettato, risolse ogni necessità di commento. Aveva riconosciuto se stesso negli elementi e nell’atmosfera che percorrevano il quadro, dai simboli propri del suo lavoro alle espressioni che riconducevano alle intime passioni dell’uomo: la pittura, la scultura, la musica.Altri miei quadri, negli anni successivi, entrarono nella sua collezione.
Sempre dipinti pensati solo per lui, spesso di grandi dimensioni, come il “Cristo restaurato” del 1989, o l’inusuale ritratto dell’amato nipote, degli anni ‘90, o i quattro dipinti, di misure uguali, che accoglievano le persone all’ingresso dello studio-laboratorio, ancora degli anni ‘80.La sua scomparsa mi ha trovato impreparato, lo credevo pressoché eterno nella sua elegante magrezza.
Mi ha annichilito in una misura imprevista, che, ne sono convinto, lui avrebbe disapprovato.
Pietro Lista
Pietro Lista, allievo di Mario Colucci ed Emilio Notte all’Accademia di Belle Arti di Napoli, è il più importante artista contemporaneo salernitano, assieme a Mario Carotenuto. Ha esposto i suoi dipinti a Parigi, Berlino, Tokio, Barcellona, Ginevra, Montecarlo, Hong Kong, Valencia, e le sue opere fanno parte di collezioni in varie nazioni del mondo, dalla Finlandia agli Stati Uniti d’America.
E’ doloroso per me scrivere questa testimonianza per un amico a cui ero legato da profondo affetto e stima e che oggi non c’è più. Poche parole con commozione.
Armando è stato per me come un fratello maggiore che mi ha sempre sostenuto con amorevole discrezione, di cui ho tanti ricordi bellissimi.
I viaggi, i nostri incontri sempre intensi, le visite al mio studio dove io ero orgoglioso dell’attenzione che dava al mio lavoro, l’avventura straordinaria della sistemazione della sua collina di Giovi dove era sempre entusiasta delle mie idee.
E’ stato un mecenate nel vero senso della parola, unico in una città arida e priva di fervori.Era davvero un signore d’altri tempi. Per me è stato un maestro di vita che porterò per sempre nel mio cuore.
Ugo Marano
Ugo Marano Ugo Marano nasce a Capriglia di Pellezzano (Sa) nel 1943 e da sempre risiede a Cetara. Frequenta l’Accademia del Disegno presso la Reverenda Fabbrica di San Pietro nella Città del Vaticano a Roma e l’Accademia del Mosaico di Ravenna.
Una sera ricevetti una telefonata dal Dottor Armando Cavallo, mi chiedeva di visitare il mio studio di Capriglia.
Cercava una scultura grande per la sua villa a Giovi. A Roma, in una galleria gli fecero il mio nome. In quel periodo creavo sculture in ferro arrugginito, grandi, spaziali, mobili. Erano le prime nel panorama internazionale e per questo non ero ancora riuscito a venderne una nonostante le mostre a Roma e la critica favorevole.
Feci pulizia e esposi in evidenza alcune sculture che mi sembravano le più belle. All’ora esatta squillò il campanello.Aprii tutto il grande portone e Armando e Pina sorridenti entrarono in Capriglia e nella mia vita per sempre.
Le mie opere piacquero e che meraviglia Pina e Armando mi commissionarono una scultura ancora più grande che fu la mia fortuna. Così ogni anno per quattro anni con infinita grazia mi chiesero altre opere da collocare nella piccola montagna. Ogni volta insieme sceglievano luoghi un po’ nascosti tanto che Armando era costretto a costruire sentieri appositamente e questo lo rendeva orgoglioso e felice. Tra di noi nacque un’amicizia molto sentita tanto ch’io in qualsiasi momento senza avvertire potevo bussare alla loro porta, sedermi al tavolo già apparecchiato e mangiare con loro.
Armando oltre all’arte amava molto la musica. Insieme andavamo a Napoli e a Roma ad ascoltare concerti di musica da camera. Eravamo diventati compagni di ricerca della gioia. Armando è stata la persona più importante nella mia vita d’artista. Ha favorito la continuazione della mia ricerca proprio all’inizio e di questo gliene sono stato sempre grato.
L’acquisto della prima scultura avvenne in concomitanza della nascita di Giuseppe, il mio primo figlio, e fu come un augurio. Cosa che poi si ripetè anche alla nascita di Paolo il mio secondo figlio.
Armando era una persona incredibilmente impegnata nel suo lavoro. Si alzava all’alba e incontrava i suoi pazienti che non potevano andare nel suo laboratorio. La sera era l’ultimo a lasciare lo studio perchè alcune analisi particolarmente impegnative le controllava di persona. Sempre presente a consultarsi con pazienti a cui elargiva consigli spassionati. Era anche impegnato nel sociale. Con Pina ed Armando ci siamo impegnati in ragione delle donne con Adele Facci e la Bonino.
Suo il sogno realizzato di costruire un grande laboratorio super attrezzato a Salerno.Vanto per tutto il meridione contemporaneo.
Maria Grazia Cappetti
Ceramista salernitana, figlia di Giancappetti, con cui lavora. Ha prodotto, per la Diagnostica Cavallo, il pannello in ceramica ispirato al microscopio ed alle cellule del sangue, che si trova sul lato sinistro entrando nella sala d’attesa di via Calò..
Il dottore Cavallo ha sempre avuto un occhio di riguardo per me e per i miei lavori.
In principio pensavo che fosse solo gentilezza nei riguardi della figlia del suo amico; in seguito mi resi conto che era veramente interessato ai miei lavori ed alla mia linea ben diversa da quella di mio padre.Io privilegio la figura e non il paesaggio. Sono meno lirica.
Sono attratta in particolare dagli occhi e dalla profondità dei sentimenti che essi rivelano.Sono attratta dai vestiti e dalle stoffe riccamente decorate e colorate; dalle atmosfere esotiche ed irreali; dal movimento dei drappeggi.
Antonio Petti
Antonio Petti e’ nato a Napoli nel 1936 e vive a Salerno. Disegnatore e scenografo, si e’ dedicato alla ricerca grafica fin da giovanissimo. Ha esposto i suoi lavori in mostre personali e collettive, in Italia ed all’estero. Della sua grafica si sono occupati, con recensioni e presentazioni, scrittori e critici di chiara fama, come Edoardo Sanguineti, Filiberto Menna, Paolo Ricci, Enrico Crispolti, Enzo Striano, Luigi Compagnone, Domenico Rea, Dario Micacchi, Francesco Vincitorio, Aldo Trione, Vitaliano Corbi, Idolina Landolfi.
Mi si presenta, ora, a distanza di tempo, un accumulo di ricordi, di pensieri, di sensazioni. E non è facile dire.
A una mostra Armando accompagna Adele Faccio, grande protagonista della emancipazione femminile. Si fermano a un mio disegno, ironico, sul maschilismo. Siamo negli anni Settanta, è tempo di battaglie civili e a Salerno Armando è in prima fila. Con passione. Con la passione che lo accompagna nell’impegno civile, per lui naturalmente sempre coincidente con la vita professionale, con il lavoro di tutti i giorni.Dacia Maraini afferma ‘le ragioni delle donne’. E’ un convegno organizzato da Armando. La città è zeppa di manifesti-lenzuolo che io e Ugo Marano abbiamo disegnato per l’evento. Credo siano i primi manifesti-lenzuolo visti a quel tempo in città: immagini molto grandi che campeggiano sui muri.
Nel mio piccolo studio Armando sfoglia disegni ed io percepisco una capacità d’attenzione che già conosco.
Poi ne sceglie uno e colgo in quest’uomo, dal tratto signorile, un atteggiamento quasi di riconoscenza, come a ringraziare di avergli comunicato un’emozione. Armando ama l’arte ed è amico degli artisti. Credo che li consideri la parte di società verso cui è importante essere attenti: una parte sana.
Armando è uomo pensoso che ama le cose belle. Ama la musica soprattutto.E si vede spesso a Napoli, al San Carlo e a S. Pietro a Maiella, ai concerti più importanti. Egli è tollerante, disponibile ma non accondiscendente, e gli è fedele compagna la discrezione, che è la qualità fondamentale di un uomo civile.
Ci siamo visti l’ultima volta in Corso Garibaldi, a Salerno. Mi ha stretto la mano, in silenzio. Come un commiato.
Michele Capano
Michele Capano, avvocato e consigliere generale del Partito Radicale, già tesoriere di Radicali Italiani.
Di Armando mi parlò per la prima volta Maurizio Provenza, mio compagno nel Partito Radicale. Alle elezioni politiche del 2001 la Lista Bonino si presentava da sola, “fuori degli schieramenti” che vedevano candidati alla Presidenza del Consiglio Francesco Rutelli per il centro-sinistra, Silvio Berlusconi per il centro-destra.
I Radicali venivano dall’insuccesso delle elezioni Regionali del 2000, dove a fronte di uno straordinario sforzo organizzativo e finanziario (ci si era presentati autonomamente in una quindicina di Regioni; Marco Pannella era candidato alla Presidenza della Regione Campania) il bottino raccolto – cinque consiglieri regionali eletti in tutta Italia – era stato assai magro.
Occorreva raccogliere le firme per la presentazione delle nostre liste alle elezioni, occorreva raccogliere “nella legalità ” (sottoscrizioni autenticate con tutti i crismi, senza scorciatoie, “alla Radicale”), e occorreva farlo con tanta pi๠difficoltà in quanto si era ben consapevoli che la lista non avrebbe raggiunto la soglia di sbarramento del quattro per cento: non avrebbe portato alcun eletto in Parlamento.
Ma era anche la campagna elettorale in cui l’Italia conosceva il nome il volto la storia la lotta di Luca Coscioni, il malato di sclerosi laterale amiotrofica divenuto poi simbolo della battaglia per la libertà di cura e di ricerca scientifica (oggi, a due anni dalla sua scomparsa, questa battaglia ਠcondotta dall’Associazione che porta il suo nome, ed in particolare da sua moglie Maria Antonietta, da qualche giorno a Montecitorio tra i deputati della Repubblica).In quelle settimane di difficoltà, da neofita dalla politica radicale, e della politica tout court, chiesi a Maurizio a chi potessi rivolgermi per un aiuto, innanzitutto finanziario. “Prova con Armando Cavallo”, mi disse lui all’esordio di una lista i cui componenti potevano contarsi sulle dita di una mano.
Fu così che seppi di Armando, del suo impegno radicale attivo nella stagione delle grandi conquiste civili degli anni ’70, della sua stima – vissuta criticamente, come credo tutto quanto lo riguardasse – per Marco Pannella.
Gli scrissi una breve lettera, cercando di evidenziare la continuità tra quelle lotte storiche ed il presente impegno che ci vedeva candidati, feci in modo di recapitargliela, ed Armando mi chiamò prima, avendo parole di affettuoso apprezzamento, mi aiutò poi, come avrebbe fatto ancora – di quando in quando – nel corso di questi anni.Era un uomo schivo, non volle mai che dessi particolare pubblicità a questi suoi segnali di attenzione, e questo profilo aveva caratterizzato anche la sua militanza radicale negli anni settanta.
Me ne ha parlato spesso Gianfranco Massari, oggi architetto e allora studente impegnato nelle raccolte firme referendarie. Armando incoraggiava, sollecitava, finanziava, ma lasciava volentieri ai compagni pi๠giovani le “luci della ribalta” (che tuttavia, giova chiarirlo, non hanno mai brillato particolarmente sul palcoscenico radicale). Ma quando c’erano problemi, se si presentava una gatta da pelare… Armando c’era, eccome.
Fu lui a portarsi in Questura quando fu sequestrato un “tazebao” sul quale (per affiancare e pubblicizzare il tavolo di raccolta firme per la legalizzazione dell’aborto) Gianfranco e gli altri compagni avevano incollato la provocatoria e dissacratoria copertina in cui l’Espresso aveva rappresentato una donna incinta, nuda, crocifissa.
L’immagine era stata considerata offensiva del “comune senso del pudore”… i ragazzi erano spaventati dall’intervento delle forze dell’ordine… e Armando, con l’autorevolezza ed il prestigio che già aveva in città, andò personalmente a chiarire la situazione.Nel 2001 era all’Albergo Italia per la nascita dell’Associazione Radicale Salernitana “Antonio Russo”. Lo conobbi di persona in quella circostanza.
Fu così cortese da portarmi in regalo due manifesti radicali degli anni ‘70 e da intervenire nel dibattito in cui, alla presenza dell’allora Segretario di Radicali Italiani Daniele Capezzone, si cercava di raccogliere idee ed energie dopo un difficile passaggio elettorale.Ed ancora per ascoltare Daniele Capezzone venne in compagnia del figlio Pier Paolo nell’autunno del 2006 all’Associazione Industriali, in un’occasione in cui il dialogo vedeva impegnato anche il Senatore Nino Paravia, che ha spesso condiviso ed affiancato l’impegno di Armando sui temi delle libertà civili.
Credo che non smise mai di essere un ascoltatore di Radio Radicale, e tra i suoi ultimi gesti vi ਠstata l’iscrizione all’associazione Luca Coscioni (che in Febbraio ha celebrato il Congresso Nazionale a Salerno) per il 2008.
Non scorderò la serenità che mi parve di scorgere sul suo volto e nella sua voce nell’ultima volta che ci incontrammo, poco tempo prima della sua scomparsa.
La drammaticità della sua condizione fisica non credo avesse intaccato la sua lucidità… l’aveva piuttosto raffinata e moltiplicata. Mi diceva di come la difficoltà polmonare lo avesse indotto, come può accadere ad un esercito costretto a difendere posizioni sempre pi๠arretrate, ad accorciare il raggio d’azione dei suoi movimenti, fino a costringerlo lì, nella poltrona da cui mi parlava.
Mi parve, allora, che avesse trovato risposta alla domanda che lui stesso fece a Daniele Capezzone nel corso dell’incontro del 2001 che ho ricordato.Armando, che non sempre aveva condiviso le scelte dei radicali organizzati, gli chiedeva di spiegare in cosa consistesse, se consistesse in qualcosa, lo “zoccolo duro” radicale. Alludeva allo “zoccolo duro” psico-politico, direi: all’insieme di quelle ragioni poche e profondissime che sono all’origine degli impegni e delle decisioni solenni che toccano a ciascuno nella vita.
Non ebbe quel giorno una risposta, ma su quella poltrona aveva tutta l’aria di averla trovata da solo.
Ciao Armando, e grazie.